La conservazione dei classici e la valorizzazione del lavoro
«Era necessario che l'eroico diventasse quotidiano
e che il quotidiano diventasse eroico»
(Giovanni Paolo II)
Nella Costruzione della Res publica christiana un ruolo determinate fu quello dei monaci, evangelizzatori e costruttori di civiltà. I monasteri erano crocevia di fede e di cultura , ma anche luoghi di scambio di tecniche e abilità artigiane. Se ne parla in questo capitolo dedicato alle lingue e alle letterature romanze poiché essi costituirono la trama unitaria di un arazzo le cui figure particolari avranno senso solo se inserite nello sfondo.
La maggior parte delle persone pensa che il maggior contributo dato dai benedettini alla civiltà occidentale sia l'attività di studio e culturale in senso lato. In verità, i benedettini coltivarono in modo notevole un altro aspetto della civiltà occidentale, ossia ciò che potremmo definire "le arti pratiche". Nella vita monastica svolse un ruolo importante il lavoro manuale, «dobbiamo ai monaci la ricostruzione agraria di gran parte dell'Europa», sostiene uno studioso. «Ovunque andassero i benedettini trasformarono terra desolata in terra coltivata. Intraprendevano la coltivazione del bestiame e della terra, prosciugavano paludi e abbattevano foreste. Furono i benedettini a trasformare la Germania in una terra fruttifera». I monaci furono anche importanti inventori e sperimentatori. Grazie alla grande rete di comunicazione esistente tra i vari monasteri, la competenza tecnologica poté diffondersi rapidamente. I cistercensi furono noti anche per la loro abilità metallurgica. Furono i principali produttori di ferro della regione della Champagne. I monaci furono «gli esperti e non pagati consiglieri tecnici del terzo mondo del loro tempo, vale a dire l'Europa dopo l'invasione dei barbari. In effetti, che fosse la macinatura del sale, del piombo, del ferro, dell'allume o del gesso, o la metallurgia, l'escavazione del marmo, il tener bottega di coltellinaio o una fabbrica di vetro, o il forgiare piastre di metallo, non vi era alcuna attività in cui i monaci non dessero prova di creatività e di uno spirito di ricerca fecondo. I benedettini sapevano incanalare il proprio lavoro verso la perfezione e ciò si verificò anche nella parola scritta.
Nell'antichità la scrittura dei testi era affidata esclusivamente a schiavi literati, a servizio di privati o del pubblico, riuniti in officine, addestrati fin dall'infanzia al lavoro calligrafico e stimati anche notevolmente, a seconda del loro talento e della loro cultura. La condizione servile dei copisti cessò del tutto solo col diffondersi del cristianesimo; con le invasioni barbariche questa professione finì per essere coltivata quasi solo nei monasteri: infatti essa finì col costituire la principale attività dei monaci di molti ordini religiosi. Lo studio della calligrafia, che comprendeva la scrittura e la miniatura, era prescritto dalle regole monastiche, a partire da quella benedettina. Quest'attività, attestata in Italia fino dal sec. V, e dal VI nell'Irlanda e nella Scozia, donde si diffuse nel continente, ricevette nuovo impulso dalla rinascenza carolingia, quando Alcuino organizzò per conto di Carlo Magno laboratori di copie e scuole di calligrafia che divennero centri di diffusione della cultura; qui talvolta era perfino fissato il quantitativo annuale di volumi che ciascun allievo doveva produrre: famoso fra tutti il monastero di San Martino di Tours. I nomi, che talvolta i copisti apponevano alle opere da loro trascritte, ci rivelano che anche persone di elevata condizione non disdegnavano questo modesto lavoro. Anche gli ordini femminili si dedicarono fruttuosamente alla trascrizione dei testi fino dai primi tempi del Medioevo. Il locale destinato nei conventi agli amanuensi era detto scriptorium ed era attiguo alla biblioteca, o nella biblioteca stessa: vi era prescritto il silenzio, e non vi potevano entrare se non i superiori, il bibliotecario, e i copisti in determinate ore del giorno. Questi sedevano su sgabelli situati dinanzi a tavole apposite e copiavano ciascuno un manoscritto diverso o le singole parti di un'opera, o scrivevano insieme sotto dettatura dell'armarius o bibliotecario. I monaci si trovavano spesso a lavorare nel freddo più inclemente. Su un codice monastico sono annotate queste parole: «Colui che non sa scrivere immagina che ciò non sia una fatica, ma sebbene soltanto tre dita tengano la penna, è il corpo intero a stancarsi».
Col sec. XIII accanto alle scuole monastiche si sviluppa l'industria degli scrittori di mestiere, chierici o laici, riuniti talvolta in corporazioni che gareggiano in attività coi monaci, i quali, in quel secolo e nel successivo, si dedicarono soprattutto alla trascrizione di opere teologiche e scolastiche per ritornare poi, nel Rinascimento, a copiare anche le opere letterarie. Di scrittori salariati si servirono allora anche i monasteri con sempre maggiore frequenza: in Italia del resto essi erano sempre esistiti accanto alle scuole, alle università, agli studi dei notari, che scrivevano gli atti e i diplomi e talvolta anche libri. I salari dei copisti erano computati a linee, a fogli o a quaderni, e per i libri miniati anche a lettere.
Nella seconda metà del sec. XV, per la gara nata fra principi italiani nel far esemplari codici di lusso, gli amanuensi furono anche celebri calligrafi: vi sono infatti un numero infinito di classici ordinati dalle corti di Ferrara, Napoli, Firenze, Milano e Urbino, trascritti con la massima perfezione ed eleganza. Alcuni di essi furono veramente famosi e i loro nomi ci sono noti: a Napoli si distinsero principalmente Joan Marco Cinico, Ippolito Lunense e Giovan Rinaldo Mennio; a Firenze Antonio Sinibaldi, insuperabile nell'arte sua, celebre collaboratore di Vespasiano da Bisticci, che nella sua bottega procurava codici alle corti d'Italia. Ma ormai siamo oltre il Medioevo e tuttavia la cura con cui si pubblicheranno i testi, prima e dopo l'invenzione della stampa, è derivata dalla pazienza degli amanuensi e dalla loro arte di 'alluminar' le pagine dei libri - secondo la formula di Dante nel canto XI del Purgatorio, v. 81.